Le Alpi in bici, giorno 1

gran san bernardo

L’agosto scorso ho fatto un giro di cinque giorni tra la Val d’Aosta, la Svizzera e le Alpi francesi.

Per la prima tappa ho pianificato di svalicare dal passo del Gran San Bernardo. Sono partita in treno da Torino la mattina, sono arrivata ad Aosta, ho comprato un paio di snack al supermercato e ho attaccato la salita.

Ero francamente un po’ in apprensione. Si tratta di un’ascesa di 1875 metri su 35 chilometri. E avevo la bici carica per un viaggio che doveva includere una notte in campeggio. Quindi sono partita con molta calma, per capire quanto lo sforzo sarebbe stato richiedente prima di consumarmi troppe energie.

La strada è la Statale 27, utilizzata da tutti i mezzi di trasporto per andare in Svizzera, e fino al bivio di Saint-Rhémy-en-Bosse è completamente condivisa con moto, auto, camper e quant’altri. Personalmente la cosa mi disturba poco, fintanto che la visibilità e la larghezza della carreggiata sono adeguate a una convivenza tollerante. Anzi per certi aspetti a volte trovo più rassicurante percorrere una strada completamente aperta al traffico, perchè so che è più manutenuta delle altre, e che certamente va dove dice di andare. Ma questo è soggettivo.

Dopo circa 20 chilometri, presso Saint-Rhémy-en-Bosse la strada si biforca. La via obbligata per i mezzi superiori a 18 tonnellate, e preferita da chi vuole arrivare più velocemente si appende sopra un immenso viadotto tirato sopra la gola del torrente Artanavaz. È un’opera di grande impatto sul panorama, si potrebbe ritenere distruttiva sotto vari aspetti. Ma in quel momento l’effetto che mi faceva era di grande ingegno umano. Guardando in alto si intravedevano già alcuni tratti iniziali del tunnel del Gran San Bernardo. La mia strada, la statale vecchia, proseguiva inerpicandosi a destra della nuova.

Immediatamente il traffico era diminuito, e incrociavo qualche altra persona in bicicletta o a piedi. Ero a 1500 metri sul livello del mare, ne avevo ancora 900 da salire. La temperatura diventava lentamente più fresca man mano che salivo, ma anche il panorama diventava sempre più maestoso. Salendo salendo si vedono sempre più cime, sempre più valli, sempre più cielo. Roccioso, selvaggio, a malapena domato e abitato dai bipedi umani. L’alta montagna incute un sacro timore, un’emozione che strozza la gola con un misto di paura ed esaltazione.

Mi erano serviti altri dieci chilometri per uscire dalla valle su cui è costruita la statale vecchia, che cammina a fianco del tunnel non ancora interrato ma sospeso, rombante del traffico motorizzato. A circa 2000 metri d’altezza, finalmente il tronco nuovo si separa per inoltrarsi nel cuore della montagna, e la strada vecchia si apre sulla conca incoronata dalle cime dei monti. Le guglie rocciose in cima, le praterie appena segnate dai sentieri e le piste dei selvatici, e la sequenza di tornanti molto evidente che mi avrebbe portato al passo.

Se da un lato la vista del dislivello mancante e dei lunghi tornanti da percorrere intimorisce un po’, dall’altro il paesaggio montano rincuora e distrae totalmente dalla fatica. Continuando a passo tranquillo, abbeverandomi dell’aria sempre più frizzante, a tre ore e tre quarti dalla partenza sono arrivata al passo. Era nuvoloso ed era freddino ed era anche molto trafficato di gente. Molti passeggiavano sui sentieri rocciosi e verso la statua di San Bernardo, altri affollavano le bancarelle, altri si godevano la vista del lago.

Bramavo un caffè, ma il bar italiano sul lungolago era murato di gente in fila, e non volevo perderci mezz’ora. Mentre valutavo il da farsi ho fatto acqua a una fontana, salutata da una coppia italiana di mezza età, vagamente stupefatta del mio abbigliamento estivo. Sapevo che a stare ferma lì avrei dato loro ragione molto in fretta, e ho deciso di proseguire. Ho trovato il confine con la vecchia sbarra abbandonata, e un ristorante svizzero poco dopo. Ho colto l’attimo e ho chiesto un caffè lungo. Ho avuto un momento di sbandamento e ho chiesto conferma quando ho sentito il prezzo: 3,70 euro. La barista ha sorriso comprensiva. Eh lo so che in Italia costa di meno.

Non avevo tempo di stare a commisurare se era valsa la pena risparmiare mezz’ora di coda pagando la differenza del costo della vita. Era freddo e avevo la discesa davanti, mi sono messa il giacchetto antivento e sono ripartita. Ho trovato un paio di gallerie abbastanza lunghe, ulteriormente fredde da percorrere in discesa, e ho puntato la mia sicurezza sul maggior rispetto degli svizzeri nei confronti dei ciclisti. Sono scesa lungo la val d’Entremont per 1000 metri prima che il giacchetto cominciasse a sembrare superfluo, e qualche centinaia di metri più sotto è improvvisamente diventato di troppo. I due versanti del Gran San Bernardo sono curiosamente simmetrici, la discesa una gemella della salita, 35 – 40 chilometri per perdere tutta la quota guadagnata, fino alla città di Martigny, definitivamente fuori dal contesto alpino.

Il mio percorso a quel punto si incontrava con il percorso del fiume Rodano, e con lui sarei scesa fino quasi al lago di Ginevra. L’Italia era stretta dalla morsa della siccità, ma i fiumi svizzeri scorrevano verdissimi e carichi d’acqua, e le loro sponde coperte di vegetazione rendevano meno opprimente il caldo umido di agosto. Avevo anche bisogno di mangiare, ma memore del caffè al passo non osavo entrare in un locale, così ho trovato un piccolo supermercato aperto in una cittadina sul lungofiume dove ho fatto una piccola spesa.

Stanca dalle tante ore in sella, ma appagata dalla tappa ho raggiunto la mia prima destinazione, la cittadina di Rennaz, dove avevo preso una stanza per dormire. Un altro giro alla Lidl mi ha procurato un po’ di cena e colazione per l’indomani, ho fatto quattro chiacchiere con la padrona di casa, una doccia e ho messo in saccoccia con soddisfazione un primo giorno di viaggio.

 

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